Su un conto corrente della Bonlat acceso presso la Bank of America di New York (la Bofa) avrebbero dovuto esservi, nel dicembre 2003, poco meno di 4 miliardi di euro di liquidità. Ma il conto non era mai esistito e il logo Bank of America che campeggiava sull’estratto conto della banca era stato "scannerizzato" al computer negli uffici di Collecchio. Maurizio Bianchi racconta nei particolari la vicenda che il 18 dicembre 2003 innescò il crollo in Borsa della Parmalat e spianò la strada all’insolvenza.
Tutto nasce da un’intervista di Bianchi al "Sole-24 Ore" del 12 dicembre 2003, raccolta da Fabio Tamburini. Nell’intervista il revisore della ex Grant Thornton parlava di un importo molto consistente nella disponibilità della Parmalat, che avrebbe dovuto trovarsi su un conto della filiale newyorkese della Bofa.
"Il 15 dicembre 2003 – spiega Bianchi durante il processo di Milano – sono convocato in Consob…Il 12 credo ci fosse stata Deloitte, che era un venerdì".
Alla Consob Bianchi incontra Marina Cicchetti, responsabile dell’ufficio controlli societari, che gli dice: "Noi dalla trimestrale di settembre abbiamo rilevato che la disponibilità del conto Bank of America è aumentata di più rispetto a quella che voi avete visto a giugno; non riusciamo a capire perché non siano in grado di pagare i bond in scadenza".
Il riferimento è a un prestito obbligazionario da 150 milioni di euro scaduto proprio in quei giorni, che Parmalat non sapeva come rimborsare nonostante possedesse sulla carta circa 4 miliardi di liquidità.
Continua Bianchi: "…la dottoressa Cicchetti ci disse: Cercate di verificare…innanzitutto se il conto c’è ancora, perché magari è stato fatto sparire, nel frattempo…C’era anche il dottor Martinelli presente, che buttò una frase che mi fece…raffreddare…: "Mi hanno detto che…la 33ma Strada…si ferma al numero 98 e non al 100". Infatti, sull’estratto conto presentato da Parmalat a Grant Thornton la filiale della Bofa veniva indicata al n°100.
Bianchi rimane sconvolto. E, appena fuori della Consob, chiama il suo ufficio di Milano, dà ordine di cercare l’estratto conto di Bank of America, di farne una fotocopia e riporre l’originale in cassaforte, "…perché ho capito in quel momento che poteva essere un documento rilevante. E poi alla mia segretaria ho dettato una mail da mandare ai nostri di New York affinché andassero a verificare fisicamente che ci fosse la banca a quell’indirizzo…Il giorno successivo – dice Bianchi ai giudici di Milano – i nostri…ci hanno mandato una mail dicendo che la banca esisteva, non era a piano terra ma al quarto piano…Questo mi aveva già rincuorato, però a quel punto io dovevo anche…accelerare i tempi per poter avere questa conferma da parte di Bank of America…quindi ho mandato per Dhl questa documentazione sia alla banca sia ai nostri di New York, affinché poi loro andassero presso la banca direttamente a recuperare l’informazione…Ora i nostri, forse lo stesso giorno, ci dissero che erano andati ma la banca li aveva cacciati, non gli aveva dato niente…".
Clamoroso: i dirigenti della Grant Thornton vanno alla Bofa il 17 dicembre 2003, chiedono lumi sulla liquidità che dovrebbe trovarsi su un conto della filiale newyorkese della banca, intestato alla Bonlat, e per tutta risposta si vedono messi alla porta.
La ferale notizia sull’inesistenza del conto Bonlat arriva in Italia la mattina del 18. "…Io ero in ufficio a fare un altro lavoro – prosegue Bianchi -, mi chiama la mia segretaria e mi dice: E’ arrivata questa mail da Bank of America, me la legge e li è crollato tutto…A quel punto…abbiamo provveduto a fare denuncia alla Procura della Repubblica di Milano…contro ignoti e nel frattempo io ho chiamato subito la Consob…e siamo stati fermi in attesa di istruzioni…, mentre noi autonomamente…abbiamo chiamato nel pomeriggio la filiale di Bank of America [per porre] una serie di domande".
E come mai – chiede il Pm – non l’avevate fatta prima, questa verifica? Risposta: "…perché…non era una situazione tale da far credere che ci fosse qualcosa di anomalo…". Le anomalie – secondo Bianchi – sarebbero scattate solo in dicembre, quando il funzionario della Consob gli fa balenare l’idea che il conto possa essere un’invezione.
Bianchi si sofferma, poi, sul problema del revisore secondario del bilancio Parmalat: ruolo rivestito da Grant Thornton. Il problema emerge in modo eclatante con la semestrale del 2003, quando l’area di revisione della Grant Thornton arriva a superare il 50% dell’attivo consolidato del gruppo Tanzi. In quel momento, da un punto di vista tecnico, Deloitte non aveva più i requisiti per svolgere il ruolo di revisore principale. "…Sicuramente alla data di dimissione della relazione (semestrale al 30 giugno 2003, ndr) la Consob doveva averlo saputo", rileva Bianchi. Eppure dall’autorità di controllo non arrivò nessuna indicazione.
Ma c’è di più. Bianchi confessa di essersi adoperato per riportare la posizione della Deloitte al livello del revisore principale. "…In Consob – dice – avevo dato la disponibilità di Grant Thornton a rinunciare ad altri incarichi (di revisione, ndr)…per…lasciare Deloitte come revisore principale".
Bianchi parla di una lettera indirizzata a Consob, a Bonlat, al consiglio d’amministrazione di Parmalat Finanziaria e al collegio sindacale, che confermerebbe la disponibilità di Grant Thornton a "…rinunciare all’incarico [in] Bonlat pur di riportare la situazione come doveva essere". La questione fu posta – secondo Bianchi – all’attenzione della Cicchetti. Che avrebbe obiettato: "Noi non abbiamo il potere di far decidere al consiglio di amministrazione il cambiamento di revisore".
Morale: tanto gli organi di controllo interni ed esterni all’azienda quanto l’autorità di controllo del mercato erano stati informati da Grant Thornton che Deloitte & Touche non aveva più i requisiti per continuare a svolgere la mansione di revisione principale, ma tutto era rimasto come prima.