Siamo proprio certi che sia un affare per Eni l’acquisizione del 20% di Adnoc Refining, la compagnia di raffinazione di Abu Dhabi? (Questo articolo è stato scritto il 29 gennaio 2019). Abbiamo fatto un giro di telefonate tra alcuni esperti per conoscere la loro opinione e li abbiamo sentiti abbastanza freddi. E anche la Borsa non s’è scaldata per niente a giudicare dall’andamento del titolo Eni dopo il grande annuncio, inchiodato sui 14,5 euro.
Si, certo, il gruppo del “cane a sei zampe” entra in Medio Oriente e da lì può esportare prodotti raffinati verso l’immenso mercato asiatico. Uno dei maggiori economisti dell’energia ci ricorda che l’integrazione verticale tra produzione e raffinazione premia sempre nel lungo periodo. Eni ottiene con l’ingresso ad Abu Dhabi tre risultati in un colpo solo: si allea con un partner ricco, si avvicina ai grandi mercati di sbocco dei prodotti raffinati, visto che l’Europa lo è e lo sarà sempre meno, e riequilibra il rapporto tra capacità di raffinazione e produzione di greggio. È infatti impossibile riversare sul mercato tutto il greggio che si produce. La regola è che all’incirca il 30% debba essere avviato alle raffinerie. Per di più l’amministratore delegato Claudio Descalzi (nella foto secondo da sinistra, e a seguire il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il sultano Ahmed Al Jaber, ministro di Stato degli Emirati e amministratore delegato di Adnoc) ha dichiarato che con questa acquisizione Eni potrà ridurre il costo medio del barile raffinato di 1,5 dollari. Attenzione però alle previsioni, non sempre si rilevano azzeccate. Il Descalzi che oggi dice queste cose è lo stesso che appena cinque anni fa, fresco di nomina, sosteneva che raffinazione e chimica in Italia erano attività da dismettere e che Eni avrebbe dovuto concentrarsi ancora di più sull’upstream. Peraltro è ciò che ha fatto: le vecchie raffinerie di Gela e Porto Marghera sono state chiuse e trasformate in impianti di bioraffinazione di taglia più piccola per la produzione dei cosiddetti biocarburanti. La raffineria di Livorno è praticamente ferma. Restano in funzione quelle di Sannazzaro de Burgondi, l’impianto di Taranto e il 50% della raffineria di Milazzo (l’altro 50% essendo stato ceduto a Q8).
Poniamoci allora questa domanda: se Adnoc Refining è per davvero una miniera d’oro perché gli arabi hanno deciso di cederne il 35%? Come mai hanno lasciato che Eni, sia pure in cambio di 3,3 miliardi in contanti, e gli austriaci di Ovm, cui hanno venduto un altro 15%, dividessero con loro una parte del tesoro?
Non abbiamo la risposta in tasca. Una fonte ci ha detto che Descalzi lavorava da sei mesi all’accordo. C’è tuttavia un punto da chiarire: l’acquisizione segue di appena quindici giorni la firma di un’altra intesa, sottoscritta con lo stesso Stato di Abu Dhabi, che ha permesso ad Eni di rilevare il 70% di due blocchi esplorativi offshore al largo della capitale degli Emirati. La successione dei due eventi a così breve distanza di tempo è una coincidenza o l’acquisizione del 20% di Adnoc Refining è una conseguenza dell’altra operazione? E’ stata abilità negoziale di Eni l’ingresso in Adnoc o è stato Abu Dhabi a imporlo ad Eni come contropartita per le due concessioni trentacinquennali? In ogni caso dovremmo chiederci perché gli arabi hanno deciso di dismettere una quota non piccola della loro capacità di raffinazione. Forse perché il mercato cinese non è più in prospettiva un approdo così sicuro? La Cina, che vende svariate decine di milioni di tonnellate l’anno di petrolio ai paesi del Sud Est asiatico, ha in fase di costruzione al proprio interno 75 milioni di tonnellate/anno di capacità di raffinazione pari a 2,5 milioni di barili lavorati al giorno. Se il paese dovesse imboccare la via della decarbonizzazione – ci dice un esperto – i suoi consumi di prodotti raffinati sarebbero destinati a non crescere più. La Cina smetterebbe di essere un’opportunità per chi oggi esporta dal Medio Oriente.
Anche l’Arabia Saudita sembra essersi incamminata sulla strada della decarbonizzazione. Riad ha annunciato di voler sganciare l’economia del paese entro il 2030 dalle esportazioni di petrolio, di cui detiene il primato mondiale e da cui dipende in modo eccessivo.
Forse anche Abu Dhabi sta convincendosi che il futuro della raffinazione non è poi così brillante e che è meglio cautelarsi, imbarcando nuovi soci con cui condividere il rischio.
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